martedì 14 aprile 2020

Leggere Sartre in tempi di quarantena

Ecco il prezioso contributo di Emilia Bezzo della classe V A su Sartre e l'esistenzialismo, che pubblichiamo integralmente invitando tutti alla lettura:

Leggere Sartre in tempi di quarantena: La nausea e lo straordinario senso dell’insensatezza

Vi sono libri che fanno irruzione nella vita e non ne escono più, segnano l’esistenza e la modificano, incontro fatale, potenza della tyche - direbbe Lacan - libri che, tra la passione e l’ossessione, binomio inscindibile, ci si porta dietro per sempre, rimangono lì, al tuo fianco, in ogni momento; ed ecco che, ogni tanto, li si rispolvera, nel tentativo di cogliere qualcosa di nuovo, di vedere tra le righe ciò che prima non era stato visto. La nausea, mio primo ed indelebile incontro con Sartre, non per cercarvi nozioni né certezze, ma per avere, intimamente, un dialogo con l’autore, per assaporare le sue parole e trovare in esse qualcosa di vivo e di vitale, qualcosa che possa illuminare, quand’anche di inquieta oscurità, il grigiore sofferente del presente. Tenteremo, dunque, di estrapolare da La nausea i nuclei emotivamente e concettualmente più suggestivi, che possano comunicare qualcosa che tocchi noi e il nostro presente, scavando nell’abisso dell’esistenza umana, della nostra attuale esistenza, fatta di giorni che, senza un fine e senza una fine, si succedono incomprensibilmente l’uno all’altro, sospeso - se non perduto - l’orientamento teleologico del tempo. Ed ecco che, tacita e subdola, arriva la nausea, che mostra l’esistenza nella sua sovrabbondante insignificanza, crollano le sovrastrutture e si dissolvono gli artifici, tutto è spogliato e rivelato nella cruda verità, che sembra essere sinonimo di insensatezza.
Così, nel caotico smarrimento di queste settimane, ho ripreso in mano
Leggere La nausea in tempi di quarantena è un’esperienza rivelatrice, affatto particolare, perché, in fondo, è come se tutti fossimo condannati alla Nausea, condannati ad esperire la nudità dell’esistenza, privata della sua dimensione mondana e convenzionale, condannati ad essere, non si sa per quanto, Antoine Roquentin, solo, nella sua Bouville, alla prese con un grigiore esistenziale che lo assale e lo soffoca, senza avventure, senza appigli, senza vie di fuga. Eppure, proprio nel momento in cui Roquentin tocca il fondo più oscuro dell’esistenza, nel momento in cui, paralizzato, impotente, abulico, la Nausea si impossessa di lui, una luce, tanto strana quanto intensa, appare: la metamorfosi inizia ad avvenire, e, proprio nell’insensatezza più assoluta, viene scoperto il senso più profondo dell’esistere, dalla disperazione più radicale si ricava una forza vitale straordinaria, che è poi il nucleo dell’opera sartriana e del suo intero pensiero filosofico, di una filosofia che affascina e colpisce, che, pur senza rigide pretese dogmatiche, può dare risposte agli interrogativi più inquieti del vivere umano. Ed è proprio per il valore liberatorio insito nella Nausea che ci sembra di dover prendere le distanze da quella critica che vede nella Nausea un’esperienza negativa e nichilistica, in cui la coscienza perderebbe la propria capacità di trascendere gli oggetti del mondo e si farebbe assorbire dall’in-sé, smarrendo, così, la possibilità di essere progetto e di creare da sé l’avvenire; in altri termini, secondo queste tendenze critiche (e, tra le altre, facciamo riferimento alle pur autorevolissime interpretazioni di Francis Jeanson), la Nausea rappresenterebbe, in maniera assoluta e univoca, il momento in cui l’esistenza perde totalmente di senso, si rivela nella sua nullità e ingiustificabilità, il momento della vita in cui ci si accorge che nulla ha un senso e nulla ha una direzione, che non ci sono ideali né principi trascendenti a giustificare l’esistenza, e tutto accade, senza spiegazioni né ragioni aprioristiche. Di fronte a ciò si prova un terribile disgusto: “è l’Esistenza che si svela, e non è bella a vedersi, l’Esistenza”, scrive Sartre medesimo. Ebbene, tutto ciò è perfettamente condivisibile, ma, se si vuole cogliere profondamente il significato dell’opera sartriana e farla propria, è necessario, accanto alla pars destruens cui si è accennato poco sopra, mettere in evidenza anche la sua esemplare pars construens, che, se analizzata in rapporto alla successiva produzione sartriana, risulta innegabile; è, cioè, necessario non fermarsi alla Nausea vista come fondo abissale da cui, avendo fatto esperienza dell’insensatezza e della vanità del tutto, è impossibile rialzarsi, bensì, come acutamente suggerisce Franco Fergnani, riconoscerne - successivamente a quello “contestativo” - il “carattere rivelativo”.


Aiutandoci con le interpretazioni di Fergnani - indiscusso punto di riferimento per la critica sartriana in Italia e in Europa - possiamo ricavare da La nausea ciò che forse veramente cerchiamo, soprattutto in periodi di buio e di grigiore come quello che stiamo attraversando, cioè una risposta, un sostegno, una parola che giunga in soccorso al nostro grido di disperazione, proprio partendo, e risalendo, dal fondo abissale ed angoscioso in cui si è precipitati: la Nausea diventa, così, il momento chiave per vivere - con terminologia heideggeriana - autenticamente, essendo passati attraverso la perdita assoluta ma momentanea della significanza dell’esistere.
In questo periodo - si è scritto all’inizio - siamo quasi condannati a fare esperienza della Nausea, per due ragioni essenziali: l’una è il venire meno della dimensione mondana dell’esistere, l’altra è il contatto che si ha con la contingenza precaria e assurda dell’esistenza. Per dimensione mondana dell’esistere, non si intende - è bene chiarire - il fruttuoso e indispensabile Mitsein (che Sartre traduce con être-pour-autrui), ossia il vivere collettivo, il rapportarsi in maniera non solipsistica all’Altro variamente declinato, ma si intende un’esistenza condotta in nome della malafede, della fuga da sé, del pascaliano divertissement, un’esistenza frenetica e convenzionale, dove la chiacchiera si è sostituita al dialogo, dove non si ha il tempo per appropriarsi del nulla che ci abita, si preferisce guardare altrove, immergersi nel mondo con l’intenzione di perdersi in esso e diventare una cosa-tra-le-cose, alienati, reificati, cosificati: è l’esistenza inautentica dei salauds (tradotto “sporcaccioni”), di chi, serenamente e prepotentemente convinto del proprio ruolo nel mondo, non coglie l’ingiustificabilità dell’esistenza e dunque non può arrivare a progettarne da sé una giustificazione, e rimane lì, sicuro del senso della propria vita, chiuso nel suo recinto di certezze e di abitudini, di relazioni superficialmente vissute, in nome di un “Si” neutro e impersonale, banalizzante e omologante, tranquillo nel proprio universo che conforta e distrae. Ebbene, ciò che sta capitando in questo momento - e perdonateci il facile e schematico semplicismo - può essere considerato come una sorta di negazione del vivere mondano, come se ci fosse impedito di vivere in maniera inautentica, di gettarci nevroticamente nella frenesia stordente della quotidianità: siamo, insomma, chiamati per necessità a un’esistenza autentica, che passa attraverso la Nausea. Scrive, a tal proposito, Fergnani in Lezioni su Sartre:

La nausea può essere considerata uno choc salutare che strappa alla banalità quotidiana [...] un’esperienza annichilente in modo totalitario e incondizionato, ma [...] un’esperienza crudamente liberatoria dagli aspetti più convenzionali, conformistici, tradizionalisti, seriosi, del vivere. Una distruzione del mondo delle impressioni canoniche.

Estraneo al mondo, déraciné, sradicato dalla tranquillità della mondanità, Roquentin scopre l’esistenza nella sua cruda profondità: la contingenza, angosciante ma potenzialmente liberatoria. Per contingenza si intende la gratuità e l’ingiustificabilità dell’esistenza, quell’ingiusitifcabilità che i salauds, così sicuri delle loro certezze e così immersi nella mondanità, non vogliono ammettere. Non c’è nulla che possa spiegare l’esistenza, non c’è necessità, tutto è contingente ed effimero, sottoposto a un divenire privo di scopo: questo scopre Roquentin e questo, in fondo, è ciò che gli permette di emanciparsi dalla massa informe dei salauds. Ma lasciamo che parli Sartre:

L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente; gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare, ma non li si può mai dedurre [...]. Orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza [...]. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare [...]: ecco la Nausea.


Ebbene, si può quindi dire che, tra Nausea sartriana ed essere-per-la-morte heideggeriano, siamo posti, in questo periodo, di fronte alla contingenza dell’esistenza e alla sua assurdità, impotenti, disgustati, schiacciati da qualcosa che accade ma non si spiega, qualcosa che è ma non si giustifica, gettati in una situazione in cui si dissolve ogni necessità e ogni schema causalistico, faccia a faccia con la finitudine e con il nulla che permea il tutto, il nulla dentro di noi, il nulla fuori di noi. E questo ci conduce sul confine angoscioso di un precipizio abissale: l’insensatezza, insensatezza della vita e della morte, insensatezza del tempo, insensatezza di giorni che si accumulano l’uno sull’altro senza un perché, privi di rifugi e di valori universali, allontanati dal caos mondanità, soli, viandanti in un deserto secco e desolato, non è data una direzione, non è dato un senso. Ma proprio qua, a contatto con l’insensatezza viscerale dell’esistenza, la Nausea ne rivela il significato: la libertà. L’uomo è libero, condannato ad essere libero, condannato a creare continuamente se stesso, senza scuse, responsabile di tutto ciò che fa, chiamato senza sosta a inventare da sé quel senso della vita che a priori non trova. Da ciò scaturisce tutta la successiva produzione sartriana, da L’essere e il nulla sino alla Critica della ragion dialettica, in un affascinante e straordinario tentativo di spiegare l’inspiegabilità dell’esistenza, non con dogmi, ma con esortazioni, dirette, intime, penetranti, come questa, contenuta in L’esistenzialismo è un umanismo:
 "La vita non ha senso a priori. Prima che voi la viviate, la vita di per sé non è nulla, sta a voi darle un senso, e il valore non è altro che il senso che scegliete." 




Emilia Bezzo

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