venerdì 20 marzo 2020

Cosa può dirci oggi la poesia di Foscolo


Avevo pensato di concludere l'anno nella mia classe quarta spiegando "I Sepolcri" di Ugo Foscolo.



Opera impegnativa e complessa, ma sempre più distante dal presente, così mi sembrava, e così difficile da spiegare, commentare, soprattutto da distaccare da quella lontananza emotiva e aulica in cui pare confinata, quasi raggelata nel linguaggio neoclassico. Tutto avrebbe dovuto seguire un percorso scontato, con l'insegnante (io) che si affanna a creare un corto circuito tra il passato e il presente e a rimettere in circolo quelle parole così antiche, chiedendosi in realtà cosa può giungere oggi ai giovani di una poesia così antica, cosa resti nella mente e nel cuore  delle giovani generazioni dopo la faticosa e certo non immediata lettura del carme, bisognoso di tante postille, note, spiegazioni per ogni verso. Si arriva a spiegare quel poema quando le menti sono esauste, quando la stanchezza dell'intero anno opprime la testa, e anche quando si vorrebbe essere fuori dalle aule scolastiche, a vivere giornate primaverili piene di vita e di sole.
Bene, nulla è andato come doveva. Eppure proprio l'epidemia di Covid-19 ha creato quel corto circuito che faticosamente avrei cercato nella normalità e ha reso quelle parole, improvvisamente e semplicemente, vita vissuta, vita di tutti. E, mi pare, non ho mai capito così bene cosa vuol dire Foscolo come in queste sere drammatiche, in cui le telecamere impietose ci mostrano bare pronte ad essere caricate sui camion militari e portate lontano.
E non perchè la morte sia esperienza solo di pochi, chè tutti prima o poi ci dobbiamo fare i conti, colpiti dalla morte di qualcuno, parenti o amici, ma perchè le immagini di questi giorni, e soprattutto quella dei camion dell'esercito che portano via da Bergamo le bare dei defunti, perchè non c'è più posto al cimitero per contenerle, perchè quelle salme debbono essere bruciate altrove, ebbene proprio quelle immagini mi hanno fatto capire Foscolo molto più di tante note e postille che potrebbero accompagnare il poema in giorni "normali".
Quando Foscolo dice che sulle tombe si crea una "corrispondenza di amorosi sensi" tra le generazioni, ci dice quanto sia importante avere un luogo per i propri morti, in cui essi possono ancora essere nostri e continuare a ricevere le cure  e gli affetti dei vivi. Perchè se il sonno della morte non è "meno duro" tra le "urne confortate di pianto", e la tomba, come dice il poeta, non serve certamente al defunto, è il vivo che trae conforto e speranza dall'avere la possibilità di esprimere l'amore per i defunti in un luogo che sia solo suo.
Ed è una intera nazione che attribuisce a quei luoghi ufficiali, ai sacrari, alle tombe monumentali, la propria identità, e vi ritrova forza e coesione anche nei momenti più bui, quando bisogna conservare la fede e la speranza. Così le tombe troiane, nel finale del carme, abbracciate da Omero, il poeta cieco che le interroga e dialoga con esse, come mi sembrano oggi più familiari, vicine e comprensibili! Come amo quell'immagine, quell'abbraccio che il poeta rivendica proprio quando tutti, in quell'Italia di inizio Ottocento, vogliono respingere le tombe, allontanarle dalle città, quando un editto legislativo anzi lo impone!
Tombe intorno a cui una nazione si raccoglie, e prende forza per difendere i suoi valori, i suoi ideali, anche per progettare il suo futuro. Chi può dirci tutto questo è il poeta, che ci ricorda quanto sia importante sopravvivere nel ricordo di una persona amata, e quanto un paese abbia il dovere di conservare il ricordo dei defunti e di onorare i sepolcri.
"Proteggete i miei padri" è ripetuto due volte nei versi finali del poema: è Cassandra che lo chiede, ai cipressi che circondano le tombe di Troia. "Proteggete i miei padri": sì, quel verso diventa anche mio, oggi che sembra scatenarsi, in alcuni paesi europei, l'invito ad abbandonare i più deboli in nome del miraggio di una immunità di gregge, oggi che le informazioni sulle vittime del virus ci sono date nella formula "erano anziani, erano malati, erano più deboli degli altri".
E spero davvero di non dover più vedere altre immagini di paesi che debbano rinunciare a dare una sepoltura ai propri defunti perchè non c'è più spazio: lo strappo di questa separazione, già dolorosa, è davvero troppo se neppure le tombe possono essere accolte; rinunciare anche a questo mi sembra una perdita troppo grave per una nazione e per un popolo. 

domenica 15 marzo 2020

Coltivare la speranza in tempi di Coronavirus: musica e poesia sono dalla nostra parte

In questi giorni segnati dall'emergenza Coronavirus che ha imposto a tutti noi un improvviso cambiamento delle abitudini sociali e soprattutto ci richiede di fare i conti con ansie e timori inespressi sul futuro, molti cercano di mantenere viva speranza e ottimismo, non solo seguendo gli aggiornamenti scientifici, ma anche diffondendo piccoli segnali di positività: dai bigliettini ai cartelli appesi sulle strade (anche sulla porta del mio condominio) con la scritta "Andrà tutto bene" che si accompagna a disegni di arcobaleni, ai video di cantanti e artisti postati su Facebook, alle canzoni sui balconi in varie città: canzoni nazionali, oppure dialettali, varie da regione a regione ma tutte rivolte a conservare un minimo contatto a distanza, come a dire: "ci siamo, siamo insieme, ci sosteniamo a vicenda".
Tra i  post di questi giorni, colpisce proprio quello di Ezio Bosso, musicista torinese che lotta da alcuni anni contro la SLA, malattia invalidante che progressivamente lo costringe a limitare i movimenti e ad aver bisogno di aiuto anche per le più normali attività, compreso lo spostarsi e il camminare, e nonostante ciò non ha mai rinunciato a comporre o dirigere concerti.
Questa la sua poesia, pubblicata sulla sua pagina Facebook ieri 14 Marzo 2020:

"Io li conosco I domani che non arrivano mai

Conosco la stanza stretta
E la luce che manca da cercare dentro

Io li conosco i giorni che passano uguali
Fatti di sonno e dolore e sonno
per dimenticare il dolore

Conosco la paura di quei domani lontani
Che sembra il binocolo non basti

Ma questi giorni sono quelli per ricordare
Le cose belle fatte
Le fortune vissute
I sorrisi scambiati che valgono baci e abbracci

Questi sono i giorni per ricordare
Per correggere e giocare
Si, giocare a immaginare domani

Perché il domani quello col sole vero arriva
E dovremo immaginarlo migliore
Per costruirlo

Perché domani non dovremo ricostruire
Ma costruire e costruendo sognare

Perché rinascere vuole dire costruire
Insieme uno per uno

Adesso però state a casa pensando a domani

E costruire è bellissimo
Il gioco più bello
Cominciamo…"

Come molti artisti, anche Ezio Bosso ha voluto condividere l'appello a rimanere a casa, ma soprattutto invitare tutti a mantenere accesa la capacità di sognare un domani migliore, che potremo costruire ma che dobbiamo continuare a immaginare oggi per poterlo davvero migliorare domani, quando ci sarà possibile, anche se il binocolo non ci consente oggi di intravvedere tempi migliori, che sembrano così irraggiungibili.
Ci piace pensare che questa poesia, questo invito a sognare e sperare, venga proprio da chi, come Ezio Bosso, costruisce ogni sua giornata nella fatica e tuttavia non ha mai rinunciato a coltivare la speranza e l'amore per la vita e la bellezza, pur essendo per lui infinitamente più difficile che per tutti noi.



La poesia, come la musica e l'arte che in questi giorni sta inondando alcune bacheche di Facebook, ha proprio la capacità di ricordare a noi tutti che solo la speranza, la musica, il canto e la bellezza possono dare un senso alla nostra vita, altrimenti rischieremmo di essere poco più che "scheletri tremanti" senza alcun valore, come ci ricorda Alda Merini in questa sua poesia, di cui condivido l'esecuzione musicale realizzata dalla nostra ex-alunna Eleonora Anselmo:





"Se la mia poesia mi abbandonasse
come polvere o vento,
se io non potessi più cantare, come polvere o vento,
io cadrei a terra sconfitta
trafitta forse come la farfalla
e in cerca della polvere d'oro
morirei sopra una lampadina accesa,
se la mia poesia non fosse come una gruccia
che tiene su uno scheletro tremante,
cadrei a terra come un cadavere
che l'amore ha sconfitto"

Coltiviamo e conserviamo allora la musica, la poesia e con esse la speranza, perchè anche lo spirito ha bisogno del suo nutrimento!

venerdì 6 marzo 2020

Paura del virus o virus della paura?

In questi giorni di emergenza per la diffusione del Coronavirus, gli alunni, in forzata permanenza a casa, riflettono e si pongono domande, su quello che ne è della nostra società alle prese con la malattia e il cambiamento dei ritmi quotidiani, su come si modificano i rapporti tra le persone e sulle prospettive di superare le preoccupazioni diffuse, non rinunciando mai a riflettere e a esercitare il proprio giudizio critico.

Ecco le riflessioni di Paola Pero, della classe V C, stimolate anche dall'intervento di Carlo Lucarelli  e dall'intervista rilasciata da Marino Niola alla trasmissione televisiva "Che tempo che fa"



"Viviamo nella società del controllo, in cui ognuno di noi sente il bisogno di tenere nelle proprie mani la sua vita, i suoi progetti, le sue emozioni. Dobbiamo sempre avere ogni cosa sotto controllo per poter sentirci bene, determinati, sicuri. Non appena capita qualcosa che non rientra nei nostri schemi, allora, diamo di matto. La nostra vita si sconvolge drasticamente al punto che siamo disposti ad aggrapparci a qualsiasi cosa, regola, informazione, pur di controllare un po’ di più la situazione. O di credere di controllarla. 

Abbiamo sempre bisogno di un appiglio perché l’incerto ci spaventa. Mi ha colpito l’intervento di Carlo Lucarelli in una trasmissione televisiva, in cui è riuscito a spiegare con un’immagine chiara e semplice quello che spinge gli uomini ad avere paura. Ci troviamo in un corridoio, di fronte ad una porta. È chiusa? Non ci interessa. È aperta? Non ci fa paura, possiamo vederci dentro. Ma se la porta è socchiusa? Ci spaventa, proprio perché non sappiamo cosa c’è dietro ma possiamo scorgervi qualcosa. Allora iniziamo a pensare ad ogni possibilità e ne siamo spaventati. È proprio questo che porta gli uomini a provare paura: l’incertezza. Ed è proprio questo che, ormai da più settimane, spaventa (quasi) tutta l’Italia. Il covid-19 è arrivato improvvisamente, non ce lo aspettavamo, sembrava qualcosa di lontano, quasi immerso in una dimensione onirica. Ora, arrivato anche da noi, è diventato motivo di inquietudine e angoscia, proprio perché non era nei nostri schemi e non lo conosciamo. Dunque, l’incertezza che si ha di fronte ad una porta socchiusa, spesso connessa all’ignoranza, porta il problema reale all’esasperazione e fa sì che la paura del virus, assolutamente sana, diventi il virus della paura.

La paura è una sensazione del tutto normale, sia negli uomini che negli animali, in quanto, provocata dalla percezione di un pericolo, mette in atto un tentativo di difesa. Come sostiene il filosofo e sociologo Umberto Galimberti, però, possiamo parlare di paura solo quando si prende in considerazione un oggetto determinato. Nel momento in cui si teme qualcosa di indeterminato, allora la paura viene soppiantata dall’angoscia. Pertanto, possiamo parlare di “virus della paura” solo per comodità, perché nella realtà dei fatti quello che sconvolge l’Italia è il virus dell’angoscia. 

Ogni giorno si possono leggere notizie che dimostrano il dilagare dell’angoscia tra gli italiani: sono sempre più frequenti, per esempio, casi di razzismo nei confronti di persone che presentano tratti fisici asiatici. Poco importa se quelle persone sono nate in Italia, magari molti anni prima di noi, e hanno vissuto tutta la loro vita qui: sono comunque etichettate come “cinesi” e, in quanto tali, portano sulle spalle la colpa del coronavirus. Questo perché, come insegna la Storia, gli uomini hanno sempre avuto bisogno di identificare il nemico, colpevole delle loro disgrazie. 

Ma l’angoscia non porta solo al razzismo. Porta anche all’isolamento da tutte le altre persone, a prescindere dal colore della pelle e dalla forma degli occhi. Per proteggerci dall’impurità del mondo che ci circonda ci chiudiamo in noi stessi: rinunciamo così a qualcosa di estremamente positivo per noi, il contatto, in modo da evitare qualcosa che invece procura il nostro malessere, cioè il contagio.

Nel tentativo di conservare la nostra purezza, commettiamo lo sbaglio più grande che un uomo possa fare in una situazione di emergenza: confondiamo l’immunità dal virus con l’immunità dai sentimenti. Non limitiamo l’immunità al nostro corpo, come dovrebbe essere, ma la estendiamo anche ai nostri sentimenti, alle nostre emozioni. Come sostiene l’antropologo Marino Niola, l’immunità dell’anima è l’arma più pericolosa: ci stacca dalla società in cui viviamo provocando una paralisi dei nostri impegni e doveri. Infatti, è sufficiente risalire all’etimologia del termine “immune” per concepirne l’accezione negativa. Cicerone parlava di munia per indicare quei doveri civili a cui ogni cittadino avrebbe dovuto e dovrebbe tutt’oggi adempiere: proprio in nome dei munia bisogna soccorrere chi ha bisogno, stringere la mano a chi si sente perduto, accogliere chi non ha una casa e sostenere chi non ha la forza. Pertanto, chi è immune nell’animo, cioè non si conforma ai doveri civili e umani, risulta essere estraneo alla socialità e all’umanità. Perciò, una società di immuni, a detta di Niola, è una società di persone sole ed esposte. Persone che, in questo modo, pensano di essere più forti ma che sono in realtà ancora più deboli: e la debolezza, insieme alla solitudine, è il modo peggiore per affrontare una situazione di emergenza."

martedì 3 marzo 2020

Piccoli scrittori crescono


Alcuni alunni del Liceo Classico hanno partecipato al concorso "Sulle vie della parità", indetto dalla associazione "Toponomastica femminile", in collaborazione con il Premio Italo Calvino, nella sezione "Narrativa".
Il concorso prevedeva di completare, sviluppando un punto di vista femminile, uno a scelta tra quattro diversi incipit di romanzi contemporanei, esprimendo problematiche relative all'integrazione, alla tolleranza e al ruolo della donna nella società contemporanea.
A volte queste piccole grandi sfide consentono agli alunni di mettersi in gioco, misurandosi con studenti di altre realtà scolastiche, e di sviluppare creatività esprimendo personali modi di vivere problemi e temi contemporanei.
Tra le tracce inviate, l'alunna Rebecca Bona della classe III B si è classificata seconda con l' elaborato che  riportiamo di seguito.
La premiazione, al momento rimandata per l'emergenza sanitaria, avverrà nel mese di Marzo.
Ci auguriamo che queste iniziative, volte a stimolare la scrittura creativa, possano continuare e dare occasione agli alunni del Liceo di sviluppare il loro talento di giovani scrittori in erba.


"Non c'era più tempo per i ripensamenti, sapeva di non poterselo permettere. Non in quel momento, non in quella situazione. 
Quella mattina Giulia si era vestita meccanicamente, fissando distrattamente un punto indistinto sulla parete bianca e spoglia di fronte a sé e cercando in ogni modo di svuotare la mente da quei mille pensieri che ormai non facevano altro che tormentarla giorno e notte. Non appena chiudeva gli occhi poteva risentire con estrema chiarezza quelle risate di scherno, quelle voci piene di disprezzo, le mani di lui sui suoi fianchi, gelide e inaspettate e le sue stesse grida che giungerle alle orecchie ovattate e quasi prive di significato. 
Si era guardata allo specchio ancora una volta, cercando di cogliere in quel volto scarno e pallido un qualcosa della Giulia che lei conosceva, quella Giulia forte e sicura di sé, quella Giulia capace di gioire delle piccole cose che la vita ogni giorno le donava, quella Giulia che non avrebbe mai pensato di cedere di fronte a un problema, ma non c'era nulla. Niente. 
Non c'era più traccia della persona che credeva di essere: al suo posto era una ragazza fragile e spaventata in cui lei non riusciva a riconoscersi, una giovane donna piena di dolore che non sapeva come rialzarsi dopo una rovinosa caduta. 
Più si guardava negli occhi e più dentro di lei si faceva largo un profondo senso di vuoto che pian piano la divorava, logorandola dall'interno e ricordandole che non sarebbe mai più potuta tornare indietro. 
I lividi sul suo corpo erano ormai svaniti, eppure lei ne ricordava perfettamente la posizione, la forma, il colore, ma soprattutto rammentava il dolore che aveva provato quando le erano stati inflitti. Un dolore lancinante, lacerante, un dolore che superava ogni concezione di sofferenza fisica. 
Lei non lo voleva. 
Non lo aveva mai voluto. 
Si sentiva sporca dentro, privata di ogni forza e dignità, impotente di fronte a tutta quell'angoscia che sembrava seguirla come un'ombra. 
Non era colpa sua, non poteva esserlo. Eppure non era più convinta nemmeno di quello. Come poteva, dopotutto? 
Un'unica solitaria lacrima calda le scese lungo la guancia e Giulia attraverso lo specchio la osservò scivolare senza intoppi sul suo volto e cadere sul suo maglioncino nero. 
Ogni mattina si svegliava e una parte di lei sperava sempre di poter aprire gli occhi e capire che quello non era stato che un terribile incubo, ma sapeva che non sarebbe successo. Sperava che si sarebbe ristabilita, che in un modo o nell'altro avrebbe potuto andare avanti. Che sarebbe riuscita a riprendere in mano la sua vita. 
Aveva così tanti sogni, così tanti progetti, eppure in quel momento non ne ricordava neanche uno. 
Non avrebbe saputo dire neanche cosa avesse guardato la sera prima alla televisione, né tantomeno cosa avesse fatto con movimenti meccanici e ormai automatici in ufficio. 
Lui l'aveva annullata, e non si poteva più tornare indietro. 
Prese lo zaino preparato il giorno prima, scese al piano di sotto e con lentezza ne estrasse la busta lilla, accuratamente sigillata, per poi posarla in bella vista sul tavolo della cucina. 
Si guardò indietro ancora una volta, osservando quei dettagli della casa che tempo prima aveva scelto con tanta accuratezza: le piccole finestre che davano sul grazioso giardino, il lampadario antico, i colori caldi, i fiori sul tavolo, ormai appassiti. 
Uscì senza più guardarsi indietro. 
Arrivò al parco molto più velocemente del previsto e si concesse un minuto per osservare tutti quei bambini che giocavano, ridendo e scherzando sulle altalene e gli scivoli. I loro volti erano così rilassati, così sereni, così privi di qualunque tipo di ansia, paura o preoccupazione. La spontaneità dei loro gesti gentili, la genuinità dei loro sorrisi dolci che regalavano a chiunque fosse disposto ad accettarli e a ricambiarli, la loro purezza l'avevano sempre fatta sorridere: i bambini erano ciò che di più vero e puro si potesse trovare in tutto il mondo. 
Il suo sguardo fu catturato da una bambina minuta dai lunghi capelli castani raccolti in due buffi codini che giocava da sola a campana, ridendo come se non desiderasse altro nella vita. Saltellava gioiosa, anche da sola, mentre i genitori la osservavano da lontano, tenendosi la mano, con un amore così profondo negli occhi che Giulia quasi si stupì. 
Faticava a ricordare un momento in cui ci fosse stata lei, in quella situazione, in cui l'unico problema fosse chi arrivava per primo nella corsa a ostacoli o non farsi trovare giocando tutti insieme a nascondino. In cui la felicità era dettata da quelle piccole cose che però sapevano migliorarti la giornata: la mamma che aveva preparato il tuo piatto preferito per cena, una gelato con papà dopo la scuola, un pigiama party con le amiche o un cartone animato insieme, dormire fino a tardi, mangiare pane e nutella o raccogliere un mazzo di margherite per la nonna. 
Avrebbe dato tutto per poter ritornare indietro, ma non era possibile. 
Sapeva che per lei non c'era più niente in cui credere, niente da cui ritornare, niente su cui contare. 
Si allontanò velocemente, mentre un groppo le saliva su per la gola, rendendole difficile respirare. Ormai conosceva fin troppo bene quella sensazione, e quasi riusciva a non farci più caso. 
Si avviò con passo spedito verso un angolo isolato del parco, in direzione di una grande e possente quercia dalle foglie di un verde acceso e brillante. Alla visione della panchina in ferro sotto di essa, per un attimo, tremò. 
Eppure si avvicinò e vi ci si sedette, cercando di ignorare il senso di panico che, esattamente come l'ultima volta che era stata lì, l'aveva assalita come uno tsunami, minacciando di sopraffarla. 
Si concedette un attimo per riprendersi, mentre quelle immagini che aveva cercato in tutti i modi di reprimere e scacciare nei più reconditi angoli della sua memoria si facevano più vivide che mai: le botte, le battute sprezzanti, le risate di scherno. E poi, improvvisamente, le sue mani su di lei, che la toccavano, che la obbligavano a spogliarsi. 
Lei non lo voleva. 
Non lo aveva mai voluto. 
Avrebbe voluto tante cose, per sé. Desiderava un marito, dei figli, una famiglia che la amasse da cui tornare ogni sera, desiderava scrivere, diventare una giornalista di successo. 
Ma non sarebbe mai successo. Non avrebbe mai potuto farlo. 
Sapeva che la Giulia che conosceva ce l'avrebbe fatta, che sarebbe stata in grado di realizzare uno dopo l'altro tutti i suoi sogni, tuttavia lei non c'era più. Le era stata portata via insieme ai suoi obiettivi, a ogni traccia del suo orgoglio e della sua sicurezza. 
Insieme al suo sorriso, a tutta la felicità di una vita che, in un solo attimo, era stata completamente spazzata via. 
Le era stata strappata via dalle mani contro la sua volontà, come a mille altre donne, mille altre madri, mille altre adolescenti. 
Aprì lo zaino e ne estrasse una corda, e mentre si impiccava l'unico pensiero che le attraversò la mente fu "non me lo meritavo". 
La busta lilla, ritrovata solo diverse ore dopo, conteneva poche righe scritte con una grafia tremolante ma ordinata: «Non fatelo. Non uccidete una persona. Non obbligatela a vivere così. Non costringetela a rinunciare al dono più grande che ha: la vita. »

lunedì 2 marzo 2020

Visita delle Classi Prime al Museo Paleontologico



Il 20 Febbraio le classi Prime del Liceo Classico hanno svolto una visita al Museo Paleontologico, gestito dall'Ente Parco Paleontologico Astigiano e situato nel Palazzo del Michelerio.

La classe I A con la guida


Le classi hanno visitato una parte del Museo con una guida che ha presentato i principali reperti conservati, come lo scheletro di una balenottera ritrovato nell'astigiano.

Dopo la prima parte della visita, in cui hanno approfondito argomenti di paleontologia generale, le classi hanno potuto visitare numerosi reperti fossili di delfini e  balenottere, risalenti all'epoca in cui il territorio dell'Astigiano e il Monferrato erano occupati dal mare tropicale.
Scheletro di balenottera
Vertebre di balenottera

La classe I C con la guida.



Al termine del percorso, le classi hanno potuto osservare un grande acquario che propone la ricostruzione "in vivo" di un fondale marino corallino, come quelli che erano situati circa 20 milioni di anni fa sulle colline torinesi.




La mattinata è stata per gli alunni un modo concreto  di apprendere, prendendo contatto con il nostro territorio, nelle modalità in cui esso appariva diversi milioni di anni fa, prima della comparsa della specie umana. Nonostante le ere geologiche intercorse, il territorio circostante ci "parla" attraverso i suoi fossili e reperti che hanno molto da raccontare e da trasmettere.