venerdì 6 marzo 2020

Paura del virus o virus della paura?

In questi giorni di emergenza per la diffusione del Coronavirus, gli alunni, in forzata permanenza a casa, riflettono e si pongono domande, su quello che ne è della nostra società alle prese con la malattia e il cambiamento dei ritmi quotidiani, su come si modificano i rapporti tra le persone e sulle prospettive di superare le preoccupazioni diffuse, non rinunciando mai a riflettere e a esercitare il proprio giudizio critico.

Ecco le riflessioni di Paola Pero, della classe V C, stimolate anche dall'intervento di Carlo Lucarelli  e dall'intervista rilasciata da Marino Niola alla trasmissione televisiva "Che tempo che fa"



"Viviamo nella società del controllo, in cui ognuno di noi sente il bisogno di tenere nelle proprie mani la sua vita, i suoi progetti, le sue emozioni. Dobbiamo sempre avere ogni cosa sotto controllo per poter sentirci bene, determinati, sicuri. Non appena capita qualcosa che non rientra nei nostri schemi, allora, diamo di matto. La nostra vita si sconvolge drasticamente al punto che siamo disposti ad aggrapparci a qualsiasi cosa, regola, informazione, pur di controllare un po’ di più la situazione. O di credere di controllarla. 

Abbiamo sempre bisogno di un appiglio perché l’incerto ci spaventa. Mi ha colpito l’intervento di Carlo Lucarelli in una trasmissione televisiva, in cui è riuscito a spiegare con un’immagine chiara e semplice quello che spinge gli uomini ad avere paura. Ci troviamo in un corridoio, di fronte ad una porta. È chiusa? Non ci interessa. È aperta? Non ci fa paura, possiamo vederci dentro. Ma se la porta è socchiusa? Ci spaventa, proprio perché non sappiamo cosa c’è dietro ma possiamo scorgervi qualcosa. Allora iniziamo a pensare ad ogni possibilità e ne siamo spaventati. È proprio questo che porta gli uomini a provare paura: l’incertezza. Ed è proprio questo che, ormai da più settimane, spaventa (quasi) tutta l’Italia. Il covid-19 è arrivato improvvisamente, non ce lo aspettavamo, sembrava qualcosa di lontano, quasi immerso in una dimensione onirica. Ora, arrivato anche da noi, è diventato motivo di inquietudine e angoscia, proprio perché non era nei nostri schemi e non lo conosciamo. Dunque, l’incertezza che si ha di fronte ad una porta socchiusa, spesso connessa all’ignoranza, porta il problema reale all’esasperazione e fa sì che la paura del virus, assolutamente sana, diventi il virus della paura.

La paura è una sensazione del tutto normale, sia negli uomini che negli animali, in quanto, provocata dalla percezione di un pericolo, mette in atto un tentativo di difesa. Come sostiene il filosofo e sociologo Umberto Galimberti, però, possiamo parlare di paura solo quando si prende in considerazione un oggetto determinato. Nel momento in cui si teme qualcosa di indeterminato, allora la paura viene soppiantata dall’angoscia. Pertanto, possiamo parlare di “virus della paura” solo per comodità, perché nella realtà dei fatti quello che sconvolge l’Italia è il virus dell’angoscia. 

Ogni giorno si possono leggere notizie che dimostrano il dilagare dell’angoscia tra gli italiani: sono sempre più frequenti, per esempio, casi di razzismo nei confronti di persone che presentano tratti fisici asiatici. Poco importa se quelle persone sono nate in Italia, magari molti anni prima di noi, e hanno vissuto tutta la loro vita qui: sono comunque etichettate come “cinesi” e, in quanto tali, portano sulle spalle la colpa del coronavirus. Questo perché, come insegna la Storia, gli uomini hanno sempre avuto bisogno di identificare il nemico, colpevole delle loro disgrazie. 

Ma l’angoscia non porta solo al razzismo. Porta anche all’isolamento da tutte le altre persone, a prescindere dal colore della pelle e dalla forma degli occhi. Per proteggerci dall’impurità del mondo che ci circonda ci chiudiamo in noi stessi: rinunciamo così a qualcosa di estremamente positivo per noi, il contatto, in modo da evitare qualcosa che invece procura il nostro malessere, cioè il contagio.

Nel tentativo di conservare la nostra purezza, commettiamo lo sbaglio più grande che un uomo possa fare in una situazione di emergenza: confondiamo l’immunità dal virus con l’immunità dai sentimenti. Non limitiamo l’immunità al nostro corpo, come dovrebbe essere, ma la estendiamo anche ai nostri sentimenti, alle nostre emozioni. Come sostiene l’antropologo Marino Niola, l’immunità dell’anima è l’arma più pericolosa: ci stacca dalla società in cui viviamo provocando una paralisi dei nostri impegni e doveri. Infatti, è sufficiente risalire all’etimologia del termine “immune” per concepirne l’accezione negativa. Cicerone parlava di munia per indicare quei doveri civili a cui ogni cittadino avrebbe dovuto e dovrebbe tutt’oggi adempiere: proprio in nome dei munia bisogna soccorrere chi ha bisogno, stringere la mano a chi si sente perduto, accogliere chi non ha una casa e sostenere chi non ha la forza. Pertanto, chi è immune nell’animo, cioè non si conforma ai doveri civili e umani, risulta essere estraneo alla socialità e all’umanità. Perciò, una società di immuni, a detta di Niola, è una società di persone sole ed esposte. Persone che, in questo modo, pensano di essere più forti ma che sono in realtà ancora più deboli: e la debolezza, insieme alla solitudine, è il modo peggiore per affrontare una situazione di emergenza."