domenica 12 aprile 2020

La filosofia ci aiuta a riflettere sul presente: Freud, la caducità e la rinascita


Freud, la caducità e la rinascita

Il punto di vista storico dal quale osserviamo e studiamo ci porta a volte a credere che gli avvenimenti su cui ci soffermiamo, come la Prima guerra mondiale, la Rivoluzione russa, la Rivoluzione francese o la peste del Trecento siano importanti e significativi in una prospettiva che è, appunto, soltanto storicamente data, ossia compiuta e definibile nelle sue molteplici sfaccettature. Immaginiamo i grandi tragici eventi del passato come un tutto. Sappiamo che le guerre ebbero impatti significativi sulle persone, che le rivoluzioni misero a dura prova gli stati, che le pestilenze fecero migliaia di morti, ma siamo portati a credere che tali avvenimenti epocali siano stati riconosciuti tali soltanto dopo “un po’ di tempo”. In realtà uno studio attento della storia ci porta a comprendere esattamente il contrario. È un aspetto che vorrei cercare di evidenziare prendendo in esame un breve testo di Sigmund Freud.
Nel 1915, a un anno dallo scoppio della Grande guerra, Freud scriveva le Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, nelle quali indagava la condizione della psiche al tempo del conflitto. Non si tratta di un unicum nella produzione freudiana, infatti qualche mese dopo pubblicava, nel 1916, poche semplici e luminosissime pagine, una sorta di risposta all’affermazione di un poeta che sosteneva di non essere in grado di riuscire a essere felice, perché la certezza che tutto è destinato a tramontare è fonte di grande angoscia. Queste pagine sono intitolate Vergänglichkeit, ovvero “transitorietà”, “precarietà” che in italiano è stato spesso tradotto Caducità. In entrambe le occasioni il Freud medico prova a rivolgere una parola di conforto ai suoi contemporanei utilizzando gli strumenti di indagine e di comprensione della mente affinati con il metodo analitico. In entrambe le occasioni, inoltre, un tema sul quale Freud insiste è quello della bellezza. Nel primo testo parla di disinganno ed estraneità per definire la condizione degli uomini suoi contemporanei e dice: “noi ci sentiamo tanto estranei in un mondo che in precedenza ci appariva così bello”. Nel secondo invece ricorda: “la mia conversazione col poeta ebbe luogo nell’estate prima della guerra. L’anno dopo scoppiava la guerra e depredò il mondo delle sue bellezze.”
Due aspetti mi colpiscono di queste constatazioni. Innanzitutto, le due frasi di Freud ci allontanano da quella falsa prospettiva del fatto storico come un che di compiuto e dato una volta per tutte. È passato soltanto un anno dall’agosto 1914, quando le potenze europee sono scese in guerra armate le une contro le altre. Non c’è bisogno di troppo tempo per accorgersi che le cose sono cambiate per sempre, non è necessario vedere la “fine della storia”. Freud, lontano dai campi di battaglia, nella sua Vienna dorata, la Vienna di Klimt e di Mahler, nella magnifica e splendente Vienna di inizio Novecento, si rende conto che tutto ormai è mutato, che la bellezza è finita.
Ed è proprio questo il secondo aspetto colto in maniera lucida dal padre della psicoanalisi: il mondo è depredato della bellezza. Freud chiama in causa la bellezza come se questa fosse la primaria caratteristica del mondo che ci circonda: la bellezza, quella bellezza che già Platone indicava come la più alta tra tutte le idee. È probabile che Freud avesse in mente il noto verso di apertura della Nenia (1799) di Friedrich Schiller: “Anche il bello deve morire, che dèi e umani soggioga”. È un verso su cui con i ragazzi di quinta, all’inizio di questo strano anno scolastico, ci siamo soffermati ascoltando la versione messa in musica da Johannes Brahms (Nänie Op. 82) in un brano per coro e orchestra che rende perfettamente le sfumature di significato del testo. La constatazione della caducità della bellezza è tra le più toccanti e dure che, come “esseri razionali finiti”, come direbbe Kant, ci sia dato in sorte di interiorizzare.
Il grande spartiacque è la fine della bellezza. È la fine di ciò che è bello che testimonia la ferita nella realtà. È quello che avvertiamo noi oggi, quando, fragili, osserviamo le nostre abitudini e i nostri rituali quotidiani sbriciolarsi infranti contro l’ormai tanto temibile quanto familiare “nemico invisibile”.
Nei testi freudiani citati vengono prese in esame anche altre questioni ma, in entrambi, solo in un secondo momento. Anche questi altri aspetti appaiono inquietantemente attuali. Leggiamo che la guerra “infranse anche il nostro orgoglio per le conquiste della nostra civiltà” ed è quello che stiamo verificando in questi giorni quando osserviamo, con angoscia, che le persone più fragili sono quelle che soffrono di più e muoiono e che non bastano le nostre intenzioni e le nostre parole a metterle al sicuro dal male. È quello che constatiamo quando nel paese più progredito del pianeta, gli USA, i più colpiti e indifesi appartengono a fasce a basso reddito della popolazione, quelle fasce che non possono permettersi un’assicurazione sanitaria (rimando alla lettura di un articolo di Martino Mazzonis che affronta la questione). Dove sono in questo caso le conquiste della civiltà?  Infranse anche, dice Freud, “le nostre speranze in un definitivo superamento delle differenze tra popoli e razze”. È ciò che si mostra in maniera lampante nelle grandi questioni economiche che la vecchia Europa sta affrontando oggi. Le speranze di un progetto politico di ampio respiro come l’Unione Europea vengono meno quando dimentichiamo o neghiamo quel principio di solidarietà che è alla base della convivenza dei popoli. Conseguentemente il virus, come la guerra, rende “piccola la nostra patria e di nuovo lontano e remoto il resto della Terra” in un drammatico e destabilizzante mutamento di prospettive. Nel momento in cui vediamo riemergere in Ungheria un regime di stampo palesemente autoritario, che ricorre alla sospensione delle garanzie parlamentari approfittando del virus come del kairos a lungo atteso oppure, ancora, quando il primo ministro inglese poteva affermare alla stampa, indisturbato, che gli inglesi avrebbero dovuto “prepararsi a perdere i loro cari”, non possiamo non concordare con il pensatore austriaco che sbigottito notava: “[la guerra] scatenò gli spiriti malvagi che albergano in noi e che credevamo di aver debellato per sempre grazie all’educazione che i nostri spiriti più eletti ci hanno impartito nel corso dei secoli”.
Caducità è un breve testo di 105 anni fa, semplice e scorrevole, non è un grande trattato di quelli che siamo abituati ad analizzare in classe, non cerca di sistematizzare, eppure questo breve testo ha molto da insegnarci: la guerra è superata, il dolore affrontato, il lutto si estingue e un Freud fiducioso ci consegna queste parole importanti: “torneremo a ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di prima”. Può apparire una conclusione ingenuamente ottimistica, ma l’autentica prospettiva è ancora quella terapeutica, una prospettiva che non deve a tutti i costi illuminare il mistero, ma deve rendere affrontabile e sopportabile l’oscurità. Non è una rivelazione, ma l’espressione di una matura consapevolezza. Ciò che questa esperienza – e ancora possiamo pensare alla nostra situazione – distruggerà dovrà trovare basi più solide e queste basi solide nascono nella disperazione per la nostra impotenza nel presente. Di fronte ai proclami che in queste settimane ci risuonano nelle orecchie spero che possa germogliare un sereno interrogarsi su ciò che si poteva fare per salvare vite umane e non è stato fatto per salvare il denaro, consensi e abitudini. Nutro la speranza che siano i giovani studenti, di ogni livello, a porsi queste domande e a eliminare incrostazioni e sedimenti inutili del passato. Riprendo una bella citazione di Baricco: “se c’è un momento in cui sarà possibile redistribuire la ricchezza e riportare le diseguaglianze sociali a un livello sopportabile e degno, quel momento sta arrivando”. Dagli esponenti migliori delle generazioni che hanno superato le guerre mondiali abbiamo appreso a trovare gli strumenti per la pace, ho fiducia che le generazioni che hanno vissuto questo evento epocale, la pandemia, che mette a rischio il diritto più antico, quello alla salute e alla vita, possano far nascere strategie e visioni che ci facciano crescere come collettività umana all’insegna di maggiori e più solidali garanzie per tutti.
Una volta terminato il lutto”, conclude Freud, “si vedrà che la nostra alta opinione dei beni della civiltà non ha perduto nulla con la scoperta della loro fragilità” e, anzi, proprio la loro fragilità deve spingerci a lottare perché le conquiste della civiltà – conquiste politiche, scientifiche e culturali – siano estese e garantite all’umanità intera.

Prof. Federico Baglivo