Freud, la caducità e la
rinascita
Il punto di vista storico dal
quale osserviamo e studiamo ci porta a volte a credere che gli avvenimenti su
cui ci soffermiamo, come la Prima guerra mondiale, la Rivoluzione russa, la
Rivoluzione francese o la peste del Trecento siano importanti e significativi
in una prospettiva che è, appunto, soltanto storicamente data, ossia compiuta e
definibile nelle sue molteplici sfaccettature. Immaginiamo i grandi tragici
eventi del passato come un tutto. Sappiamo che le guerre ebbero impatti
significativi sulle persone, che le rivoluzioni misero a dura prova gli stati, che
le pestilenze fecero migliaia di morti, ma siamo portati a credere che tali
avvenimenti epocali siano stati riconosciuti tali soltanto dopo “un po’ di
tempo”. In realtà uno studio attento della storia ci porta a comprendere
esattamente il contrario. È un aspetto che vorrei cercare di evidenziare
prendendo in esame un breve testo di Sigmund Freud.
Nel 1915, a un
anno dallo scoppio della Grande guerra, Freud scriveva le Considerazioni
attuali sulla guerra e sulla morte, nelle quali indagava la condizione
della psiche al tempo del conflitto. Non si tratta di un unicum nella
produzione freudiana, infatti qualche mese dopo pubblicava, nel 1916, poche semplici
e luminosissime pagine, una sorta di risposta all’affermazione di un poeta che
sosteneva di non essere in grado di riuscire a essere felice, perché la
certezza che tutto è destinato a tramontare è fonte di grande angoscia. Queste
pagine sono intitolate Vergänglichkeit, ovvero “transitorietà”, “precarietà”
che in italiano è stato spesso tradotto Caducità. In entrambe le
occasioni il Freud medico prova a rivolgere una parola di conforto ai suoi
contemporanei utilizzando gli strumenti di indagine e di comprensione della
mente affinati con il metodo analitico. In entrambe le occasioni, inoltre, un
tema sul quale Freud insiste è quello della bellezza. Nel primo testo parla di
disinganno ed estraneità per definire la condizione degli uomini suoi
contemporanei e dice: “noi ci sentiamo tanto estranei in un mondo che in
precedenza ci appariva così bello”. Nel secondo invece ricorda: “la mia
conversazione col poeta ebbe luogo nell’estate prima della guerra. L’anno dopo
scoppiava la guerra e depredò il mondo delle sue bellezze.”
Due aspetti mi
colpiscono di queste constatazioni. Innanzitutto, le due frasi di Freud ci
allontanano da quella falsa prospettiva del fatto storico come un che di
compiuto e dato una volta per tutte. È passato soltanto un anno dall’agosto
1914, quando le potenze europee sono scese in guerra armate le une contro le
altre. Non c’è bisogno di troppo tempo per accorgersi che le cose sono cambiate per sempre, non
è necessario vedere la “fine della storia”. Freud, lontano dai campi di
battaglia, nella sua Vienna dorata, la Vienna di Klimt e di Mahler, nella
magnifica e splendente Vienna di inizio Novecento, si rende conto che tutto
ormai è mutato, che la bellezza è finita.
Ed è proprio
questo il secondo aspetto colto in maniera lucida dal padre della psicoanalisi:
il mondo è depredato della bellezza. Freud chiama in causa la bellezza come se
questa fosse la primaria caratteristica del mondo che ci circonda: la bellezza,
quella bellezza che già Platone indicava come la più alta tra tutte le idee. È
probabile che Freud avesse in mente il noto verso di apertura della Nenia
(1799) di Friedrich Schiller: “Anche il bello deve morire, che dèi e umani soggioga”.
È un verso su cui con i ragazzi di quinta, all’inizio di questo strano anno
scolastico, ci siamo soffermati ascoltando la versione messa in musica da
Johannes Brahms (Nänie Op. 82) in un
brano per coro e orchestra che rende perfettamente le sfumature di significato
del testo. La constatazione della caducità della bellezza è tra le più toccanti
e dure che, come “esseri razionali finiti”, come direbbe Kant, ci sia dato in
sorte di interiorizzare.
Il grande spartiacque
è la fine della bellezza. È la fine di ciò che è bello che testimonia la ferita
nella realtà. È quello che avvertiamo noi oggi, quando, fragili, osserviamo le
nostre abitudini e i nostri rituali quotidiani sbriciolarsi infranti contro
l’ormai tanto temibile quanto familiare “nemico invisibile”.
Nei testi
freudiani citati vengono prese in esame anche altre questioni ma, in entrambi,
solo in un secondo momento. Anche questi altri aspetti appaiono
inquietantemente attuali. Leggiamo che la guerra “infranse anche il nostro orgoglio per le conquiste
della nostra civiltà” ed è quello che stiamo verificando in questi giorni
quando osserviamo, con angoscia, che le persone più fragili sono quelle che
soffrono di più e muoiono e che non bastano le nostre intenzioni e le nostre
parole a metterle al sicuro dal male. È quello che constatiamo quando nel paese
più progredito del pianeta, gli USA, i più colpiti e indifesi appartengono a
fasce a basso reddito della popolazione, quelle fasce che non possono
permettersi un’assicurazione sanitaria (rimando alla lettura di un articolo di Martino Mazzonis
che affronta la questione). Dove sono in questo caso le conquiste della
civiltà? Infranse anche, dice Freud, “le
nostre speranze in un definitivo superamento delle differenze tra popoli e
razze”. È ciò che si mostra in maniera lampante nelle grandi questioni economiche
che la vecchia Europa sta affrontando oggi. Le speranze di un progetto politico
di ampio respiro come l’Unione Europea vengono meno quando dimentichiamo o neghiamo
quel principio di solidarietà che è alla base della convivenza dei popoli. Conseguentemente
il virus, come la guerra, rende “piccola la nostra patria e di nuovo lontano e
remoto il resto della Terra” in un drammatico e destabilizzante mutamento di
prospettive. Nel momento in cui vediamo riemergere in Ungheria un regime di
stampo palesemente autoritario, che ricorre alla sospensione delle garanzie
parlamentari approfittando del virus come del kairos a lungo atteso oppure,
ancora, quando il primo ministro inglese poteva affermare alla stampa,
indisturbato, che gli inglesi avrebbero dovuto “prepararsi a perdere i loro
cari”, non possiamo non concordare con il pensatore austriaco che sbigottito
notava: “[la guerra] scatenò gli spiriti malvagi che albergano in noi e che
credevamo di aver debellato per sempre grazie all’educazione che i nostri spiriti
più eletti ci hanno impartito nel corso dei secoli”.
Caducità
è un breve testo di 105 anni fa, semplice e scorrevole, non è un grande
trattato di quelli che siamo abituati ad analizzare in classe, non cerca di
sistematizzare, eppure questo breve testo ha molto da insegnarci: la guerra è
superata, il dolore affrontato, il lutto si estingue e un Freud fiducioso ci
consegna queste parole importanti: “torneremo a ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su un
fondamento più solido e duraturo di prima”. Può apparire una conclusione
ingenuamente ottimistica, ma l’autentica prospettiva è ancora quella
terapeutica, una prospettiva che non deve a tutti i costi illuminare il
mistero, ma deve rendere affrontabile e sopportabile l’oscurità. Non è una
rivelazione, ma l’espressione di una matura consapevolezza. Ciò che questa
esperienza – e ancora possiamo pensare alla nostra situazione – distruggerà dovrà
trovare basi più solide e queste basi solide nascono nella disperazione per la
nostra impotenza nel presente. Di fronte ai proclami che in queste settimane ci
risuonano nelle orecchie spero che possa germogliare un sereno interrogarsi su
ciò che si poteva fare per salvare vite umane e non è stato fatto per salvare
il denaro, consensi e abitudini. Nutro la speranza che siano i giovani
studenti, di ogni livello, a porsi queste domande e a eliminare incrostazioni e
sedimenti inutili del passato. Riprendo una bella citazione di Baricco: “se c’è
un momento in cui sarà possibile redistribuire la ricchezza e riportare le
diseguaglianze sociali a un livello sopportabile e degno, quel momento sta
arrivando”. Dagli esponenti migliori delle generazioni che hanno superato le
guerre mondiali abbiamo appreso a trovare gli strumenti per la pace, ho fiducia
che le generazioni che hanno vissuto questo evento epocale, la pandemia, che
mette a rischio il diritto più antico, quello alla salute e alla vita, possano
far nascere strategie e visioni che ci facciano crescere come collettività
umana all’insegna di maggiori e più solidali garanzie per tutti.
“Una volta terminato
il lutto”, conclude Freud, “si vedrà che la nostra alta opinione dei beni della
civiltà non ha perduto nulla con la scoperta della loro fragilità” e, anzi,
proprio la loro fragilità deve spingerci a lottare perché le conquiste della
civiltà – conquiste politiche, scientifiche e culturali – siano estese e
garantite all’umanità intera.
Prof. Federico Baglivo
Prof. Federico Baglivo