Alcuni studenti delle classi quinte visitano la mostra di Alberto Burri presso la Fondazione Ferrero ad Alba
“Amo Burri perché non è solo il pittore maggiore d’oggi, ma è anche la principale causa di invidia per me: è d’oggi il primo poeta”. Questa riflessione appartiene al poeta ermetico Giuseppe Ungaretti: l'intellettuale del secolo scorso si pronuncia in questo modo al fine di descrivere un artista le cui opere rappresentano l’incontro tra un forte turbamento interiore e il connubio materico che alternava l’utilizzo di sacchi, plastica, corde, chiodi nelle opere del genio di Alberto Burri.
L’artista nasce a Città del Castello nel 1915 e si inserisce nell’ambiente culturale italiano come uno tra i maggiori esponenti e interpreti dell’Informale. Grande risonanza ha avuto, nel vero significato delle sue opere, la sua esperienza di vita. Prima di comprendere la sua reale vocazione, l’Arte, dopo aver conseguito gli studi presso il dipartimento di Medicina a Perugia, Burri si arruolò nell’esercito, più precisamente nella 10° legione in Africa Settentrionale. Nei giorni della resa italiana in Africa fu arrestato dagli inglesi e rinchiuso nel “criminal camp” per non cooperatori nel campo di concentramento di Hereford, in Texas. Questo periodo segnò profondamente la sua produzione successiva: l’utilizzo dei materiali richiama l’essenzialità dei mezzi che lo circondavano durante la prigionia; i sacchi diventano il tessuto della società del dopoguerra e, per questo motivo, essi venivano stravolti nella loro forma e utilizzo. Il tessuto grezzo diventa confine di enormi crateri neri dipinti su una tela cucita o inchiodata ad altri materiali. La plastica subentra nella sua produzione solo a metà degli anni 50: è materiale nuovo e, come ogni novità, è oggetto di grande richiesta, tanto da farne emblema di un nuovo capitalismo durante gli anni del boom economico.
Come si approccia l’autore a questa novità? Stravolgendone la consistenza, incendiandola in un furore che crea squarci, sfumature nere e marroni; i nuovi connotati che le tele di plastica assumono richiamano demoni interiori che emergono dai colori della violenza che l’autore conobbe durante il conflitto: il rosso e il nero.
Proseguendo nelle sale della Fondazione Ferrero, ci si imbatte in una sorta di equilibrio ritrovato: a colori scuri e decisi, si sostituiscono tonalità chiare che lasciano tregua agli occhi dello spettatore; si alternano figure geometriche e dettagli d’oro che non solo richiamano la tradizione musiva, ma anche uno spiraglio di speranza in un mondo immerso in una fuligginosa coltre nera.
Questa esposizione presso la sede della Fondazione Ferrero ad Alba ha suscitato grande interesse tra gli alunni delle classi quinte del Liceo Classico Vittorio Alfieri che, accompagnati da alcuni docenti, hanno compreso quella che si può definire la migliore tecnica di apprendimento: vivere quanto sui manuali è solo descritto in un contesto del tutto diverso dal consueto.
A cura di Camilla Camusso, VC
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