Ancora un articolo sulle differenze di genere, in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, per capire a che punto siamo e quanto sia ancora difficile la strada da percorrere:
Troppo spesso negli articoli di cronaca sui casi di femminicidio si dedica poco spazio alla donna vittima, per sottolineare invece i motivi che hanno spinto l’uomo a compiere atti di violenza, come la gelosia o la fine di un rapporto. Non si rimarca mai che ogni donna dovrebbe essere libera di condividere la propria vita con chi desidera e per quanto tempo desidera, senza rischiare la morte.
E’ importante quindi cercare di educare le nuove generazioni al rispetto verso gli altri, verso le donne in particolare, già nelle scuole.
Il 25 Novembre, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, al Liceo Classico “ V. Alfieri” di Asti si è svolta una conferenza che ha visto la partecipazione del Sindaco e di alcuni assessori comunali, di responsabili di centri per l’accoglienza femminile e ufficiali dei carabinieri del dipartimento per le violenze verso le donne, per sensibilizzare gli studenti in merito al tema della giornata. Collegati tramite internet da tutte le scuole della città, più di 800 ragazzi hanno potuto ascoltare importanti informazioni e consigli per cercare di arginare il fenomeno della violenza verso le donne, come ad esempio quello di non cadere mai nell’indifferenza, ma cercare di essere vigili verso gli altri.
Un altro tema importante trattato durante la conferenza è stata l’analisi delle cause che portano gli uomini a svolgere gesti violenti nei confronti delle donne: in alcuni casi sono vere proprie patologie, non giustificabili con un folle amore distrutto da una separazione o da comportamenti particolari della donna che si sostiene di amare.
Le violenze di cui le donne sono vittime non sono solo fisiche, ma anche economiche o psicologiche, e lasciano nella vittima danni permanenti. Più volte si è ribadita l’importanza di educare non solo le donne a denunciare atti violenti, ma anche gli uomini a diventare persone rispettose dell’altro sesso e consapevoli delle conseguenze delle loro azioni.
La disparità di genere è dunque, purtroppo, ancora molto diffusa nella nostra società; dobbiamo pertanto impegnarci tutti a cercare di superarla, anche partendo dalle piccole azioni e ricordandocene non solo il 25 novembre o l’8 marzo ma tutto l’anno.
Anche nel nostro paese non manca il rischio che le donne siano “confinate” nei margini, sempre in dovere di giustificare se stesse e le proprie azioni.
Vogliamo ricordare che in alcuni paesi lontani da noi, come l’Afghanistan, la vita delle donne è oggi mortificata da leggi che vietano a tutte le donne di essere chiamate in pubblico con il proprio nome, considerato come un insulto, tanto da dover essere chiamate come “figlia di ” o “moglie di” , seguito dal nome del parente maschio. Il proprio nome non è scritto neanche nei documenti oppure certificati di nascita. Immaginate quindi di non avere un’identità, se non in relazione a un uomo. Se andate dal medico per farvi prescrivere dei farmaci non potete dire il vostro nome; oltre a ciò vostro marito può decidere di picchiarvi senza alcun timore di essere punito: il vostro corpo appartiene a lui, proprio come il vostro nome. E’ stato il coraggio di una donna speciale, Laleh Osmany, che nel 2015 è riuscita a fondare una campagna chiamata “Dov’è il mio nome?”, ha sopportato insulti e maggiori discriminazioni e dopo tre anni di lotta ha ottenuto che il governo del suo paese consentisse che il nome della madre fosse incluso sulle carte d’identità nazionali.
Una conquista importante, sancita nel 2020 da un premio internazionale della BBC, recentemente annullata: oggi il suo paese, piombato nelle mani dei talebani, ha nuovamente azzerato i pochi segnali della parità di genere, le donne sono ancora confinate in casa, escluse dall’istruzione e dal lavoro, chissà per quanto.
Pensando alla sua storia, ricordiamoci che anche in Occidente le differenze di genere si insinuano ostinatamente in modo più sottile e pervasivo, ma altrettanto dannoso, nella vita di tutti: in ambito lavorativo, secondo un’indagine dell’ISTAT in Italia a dicembre 2020, a causa della pandemia si sono contati 101 mila lavoratori in meno, di cui 99 mila donne; questo accade principalmente perché sono le donne a svolgere maggiormente lavori precari che hanno meno tutele ed a subire licenziamenti, come in caso di maternità.
Questo è solo un esempio di come siano spesso le donne le prime ad essere escluse dalle tutele e dal rispetto, e perciò ricordiamoci che esiste una sola cosa da fare: educare al rispetto, perché contro i pregiudizi l’educazione è l’unico vaccino." Giulia Boracco, classe IV A
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