L’adolescenza in crisi si racconta agli adulti
Il confronto con i propri docenti e i compagni, lo sportello di ascolto e un laboratorio di teatro classico ci aiutano a riflettere su come stiamo
Sono una ragazza di 15 anni e frequento il primo anno del liceo classico. Premetto che ho la fortuna di studiare in un contesto sereno, in cui non sono trattata come un numero sul registro elettronico, ma come una persona, con i miei punti di forza e le debolezze che tutti abbiamo e che nell’Istituto che frequento sono affrontate a più livelli: a lezione, con docenti e compagni; in ore dedicate a un laboratorio di teatro classico; o in incontri individuali con una psicologa, messa a disposizione dalla scuola stessa. Ma veniamo a me. Trascorro una vita in salute, con una casa, una famiglia che mi dà amore e mi vizia, amici fedeli e numerosi sogni e passioni. All’apparenza può sembrare una vita felice, che ogni adolescente deve e si aspetta di vivere. Tuttavia, non tutto è come sembra. Da ricerche condotte a scuola sul tema “Come cresce un bambino nel nostro secolo” ho trovato che 86 milioni di ragazzi tra i 15 e i 19 anni e 80 milioni tra i 10 e i 14 soffrono di ansia e depressione. Spesso mi sento dire: “la vostra generazione ha solo ansie e preoccupazioni derivanti da sciocchezze” oppure “ai miei tempi era tutto molto più difficile, ma eravamo felici”. Queste affermazioni mi hanno fatto riflettere e cercherò di parlarne a partire dalla mia esperienza: l’esperienza di una ragazza che sta ancora crescendo, ma che è già abbastanza matura per riflettere su se stessa. Parto dalla considerazione che l’ansia o qualsiasi disagio psicologico che un ragazzo possa vivere sicuramente si basano su eventi che lo hanno particolarmente segnato nel passato o che lo tormentano nel presente. Due esempi che potrebbero accomunare tutti i giovani, cui hanno causato, e causano, disturbi a più livelli, sono la pandemia legata al Covid 19 e la guerra in Ucraina. La prima ha costretto noi adolescenti, che solitamente amiamo stare in compagnia e uscire per qualunque pretesto, a isolarci, senza alcun contatto con la società, e spesso neppure con la stessa famiglia, se non per necessità essenziali. A questa situazione, nel mio caso, se ne sono aggiunte altre, personali, che, purtroppo, mi hanno fatto sperimentare cosa significhi avere attacchi di panico. Se lo dovessi spiegare brevemente, direi che può avvenire in qualsiasi momento, anche se si è pienamente felici, e che si sente un vuoto indescrivibile, come se in pochissimo tempo ci si trovasse sulla cima di un’alta rupe e non si sentissero più i piedi toccare terra. In momenti come questi non si ha più il controllo di sé stessi. Se si riflette, vivere uno stato d’animo del genere durante l’adolescenza, quando la mente si forma ed è colta da pensieri di ogni genere anche in un contesto di normalità, è tutt’altro che semplice. Quando poi ci illudevamo che presto sarebbe comparsa la luce in fondo al tunnel, ecco la guerra. Al momento lontana da noi, certo, ma solo nello spazio, perché in realtà è già entrata nelle nostre vite, dalle drammatiche immagini di morte e sofferenza all’incertezza economica che tocca tutti noi, delineando un futuro tutt’altro che roseo. Io mi ritengo una persona volenterosa, piena di aspirazioni e che pretende da e per se stessa sempre il meglio, cosa che per fortuna accade anche a molti dei miei amici. Ebbene, ciò, paradossalmente, in un momento come questo, va ad alimentare molte insicurezze, specie a scuola, nel mio caso il liceo classico. Dai miei 15 anni ciò che tutti, giustamente, si attendono è che la lo studio sia l’impegno prevalente, cui dedicare la maggior parte delle energie. Anche su questo concordo, perché l’indirizzo che ho intrapreso mi appassiona davvero, ma, dopo mesi di DAD, ho instaurato con la scuola, e come me la maggior parte dei giovani, un rapporto di amore e odio. Ottengo sempre risultati molto buoni, ma ogni volta non ne sono pienamente soddisfatta perché, al momento di un’interrogazione o di una verifica, sono più tesa di ciò che si dovrebbe intendere per “persona tesa”. Spesso piango senza una ragione ed è in quei momenti che dubito del mio futuro perché ho l’impressione che gli adulti pretendano da noi adolescenti sempre il massimo, giudicando semplici “paranoie” la nostra reale inquietudine. In realtà, a essere irragionevole, a mio avviso, è il loro atteggiamento, se non di tutti, di molti, che, sottovalutando le nostre ansie e paure, ci costringe o a trattenerle, reprimendole, o a fingere di averle superate. Ma se i nostri disagi e interrogativi (sul futuro, sull’identità, per citarne solo alcuni) non vengono esternati e affrontati ora, quando potremo farlo? Forse quando sarà troppo tardi. Così, solo trovando il coraggio di parlare e condividere con gli altri i nostri sentimenti, saremo davvero noi stessi. A tal proposito, proprio tra i banchi del liceo ho imparato che nella società omerica, detta della “vergogna” (oggi diremmo del “timore del giudizio degli altri”), accade lo stesso ad Achille, nell’Iliade, quando, ucciso Patroclo da parte di Ettore, addolorato, piange e si dispera. E’ forse “meno uomo”? Direi il contrario. Con le debite differenze, ma anche molti punti di contatto, come Achille decide, dopo aver manifestato la sua disperazione, di tornare a combattere, così noi giovani, usciti dal “mondo” virtuale o di solitudine in cui ci siamo chiusi per sopravvivere, solo parlando, perché ascoltati, potremo iniziare un percorso coraggioso per affrontare le nostre debolezze. Un altro esempio classico di quanto sia pericoloso reprimere il proprio inconscio e la propria interiorità ci è fornito dalle Baccanti di Euripide. Dioniso, giunto a Tebe, condanna le sorelle della madre Semele, perché non hanno creduto alla sua natura divina, alla follia (“menadi”, in greco, da mania, “follia”) e Penteo, figlio di una di loro (Agave), a essere squartato proprio dalla madre, che vede in lui un leone. Al ritorno alla coscienza la scoperta dell’atroce delitto. Che cosa sarebbe accaduto se la potenza di Dioniso fosse stata accettata, rispetto alla razionalità, come “l’altra” realtà, non dannosa, a meno che non venga soffocata? Probabilmente né Penteo né Agave sarebbero stati vittime del dio, ma avrebbero imparato a convivere con lui, come l’indovino Tiresia e il re Cadmo, che, sempre nella tragedia, saggiamente, accolgono Dioniso e sono disposti, danzando, pur vecchi, a mettersi in discussione. Vorrei riuscire a far comprendere agli adulti, così, che né io né i giovani come me inventiamo malesseri immaginari. Forse potremmo fingere se il mondo attorno a noi fosse solo a colori, ma quanto è accaduto per il Covid in tutto il mondo e accade, oggi, in Ucraina, a tanti miei coetanei, dimostra il contrario. E proprio pensando a loro, e alla tragedia quotidiana che stanno vivendo, concludo questi miei pensieri ringraziando il mio liceo per avermi dato l’opportunità e gli strumenti per esprimere quello che ho dentro. E’ proprio l’ascolto ciò di cui io e i miei coetanei abbiamo bisogno.
a cura di Giulia Porta, classe IA